In queste ultime due settimane mi sono ritrovata inaspettatamente a condurre una ricerca sulla vocalità orientale e più nello specifico sul canto giapponese. La musica giapponese ha caratteristiche ben precise che la differenziano da quella del resto del mondo nonostante dai primi del 900 influenze provenienti dall’occidente mutarono profondamente il concetto musicale che si era perpetrato fino a quel momento.
Le origini.
In principio la tecnica vocale della musica giapponese si rifaceva ad influenze provenienti dalla Cina, dalla Corea e dall’India. In antichità Infatti, il popolo giapponese fu costantemente impegnato in guerre civili per dedicarsi alla costruzione di una cultura musicale e generale.
Quindi quando il paese fu invaso oppure invase altri territori, ne importò usi e costumi e ovviamente la musica faceva parte di questi.
Il legame con il teatro
Fin dall’antichità la musica giapponese è stata legata più che altro al suo aspetto più funzionale.
Un chiaro esempio ci viene fornito dal teatro, in cui lo sposalizio tra musica, gesto e immagine ha il preciso scopo di sottolineare gli accadimenti.
Per meglio comprendere, oltre a lasciare un video dove potrete vedere all’opera gli attori dell’epoca, noterete come ogni suono ma soprattutto ogni pausa, aveva una precisa finalità e funzione.
Anche la vocalità veniva usata come chiara espressione di qualcosa di più profondo.
Qui un esempio di spettacolo e vocalità all’interno del teatro Noh.
La funzione della voce
Le forzature (Tzuki è il nome di questa tecnica), il vibrato larghissimo (Yuri), l’utilizzo di strutture sovraglottiche oppure delle false corde vocali (che danno come risultato una voce roca), abbellimenti, passaggi di registro estremamente rapidi e molto altro, venivano usati non tanto per la loro bellezza ma per meglio veicolare il messaggio.
A conferma di quanto la voce fosse importante nei componimenti antichi, posso dirvi che il 90% della musica tradizionale era basato su performance vocali accompagnate da vari tipi di ensemble strumentali.
Queste formazioni chiamate Hayashi kata, prevedevano di base un piccolo taiko, otsusumi e kotsusumi, un flauto piccolo di nome nohkan e a volte uno shamisen.
Notiamo quindi da subito la profonda differenza rispetto alla musica occidentale dove, la ricerca del bello, di armonie più o meno complesse, dei colori musicali, erano il centro delle composizioni dell’epoca.
Katarimono è la parola che racchiude tutte le tecniche di canto dell’epoca.
Come si è detto poche righe in più su quindi, il canto giapponese inizialmente sembrava più una declamazione di fatti ed eventi. Questa tecnica si chiama Yôkyoku.
Mentre la tecnica Utaimono prevedeva un’emissione molto più melodica, simile a quanto avviene in una normale canzone.
Come avviene un po’ anche oggi, c’erano poi tutta una serie di versi/suoni che esprimevano tutta una serie di concetti. Si può dire che questi fonemi stiano ai giapponesi come il gesticolare agli occidentali e italiani in particolare.
Occorre aspettare la restaurazione Meiji per avere un’evoluzione che porterà all’Enka prima e al kayokyoku poi per sentire qualcosa di più simile a ciò a cui siamo abituati in occidente.
Di seguito trovate vari esempi di gestione della voce.
Ed oggi?
La musica giapponese di oggi porta con se la tradizione vestendola però di nuovi panni ed influenze… ecco una raccolta di brani che mescolano tradizione e modernità
Cosa ne dite? Avete trovato interessante questa rubrica?
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(grazie mille)