Dopo aver parlato dell’allattamento, veniamo ora al mio grande dilemma, ossia quale svezzamento aiuterebbe il mio bambino a crescere meglio e in salute. Viste le premesse che ho enunciato, la mia risposta è quella che segue.
Prima sarebbe tuttavia opportuno soffermarsi su una differenza fondamentale, non solo dal punto di vista semantico.
I termini di slattamento o svezzamento hanno una connotazione negativa, cioè togliere il vizio (il latte). Fino all’Ottocento lo svezzamento non iniziava prima dell’anno di vita e l’allattamento proseguiva fino anche a 5/6 anni. Era l’unica possibilità per ridurre la morte da infezione e la denutrizione. Dopo, la rivoluzione industriale indusse le donne ad avere un gran numero di figli, per avere lavoratori e soldati in quantità (data l’alta mortalità infantile e una bassa aspettativa di vita). Così le donne dovevano svezzare precocemente per poter essere fertili più velocemente (infatti un allattamento intenso e frequente è contraccettivo).
Una mamma che allatta al seno non compra latte in polvere, il bambino è più preservato da infezioni quindi non si ammala, non consuma farmaci e non va dal pediatra, compra meno omogeneizzati e affini perché svezza più tardi. Nonostante dopo la seconda guerra mondiale, nella nostra parte del mondo le condizioni di vita sono nettamente migliorate, il termine è rimasto per permettere sempre più una maggiore crescita economica.
È da sottolineare comunque come l’OMS, l’UNICEF e l’Accademia Americana di Pediatria da un decennio abbiano risollevato e promosso l’allattamento al seno, e ne stiano sostenendo sempre più l’importanza a tutti i livelli (per il bambino, per la mamma, per la società, per l’ambiente).
Nel mio piccolo posso confermare come questo venga fatto sia nei consultori sul territorio, sia in ospedale.
Ma come svezzare? Prima del 1800 la nutrizione dipendeva dalle possibilità economiche e non dalle ricerche scientifiche. Più avanti si iniziò a parlare dei sostituti del latte materno per le motivazioni già esposte in precedenza e poi, per i pochi che potevano permettersela, di quando introdurre la carne, perché, fino ad allora, l’alimentazione era necessariamente vegetariana.
Passato il periodo delle guerre mondiali, dove non si poteva fare gli schizzinosi su quello che c’era da mangiare, si arrivò ad un periodo dove il benessere aumentava sempre più. Sfido chiunque a trovare un anziano che non abbia paura di restare senza cibo. Ora questo problema non esiste praticamente più nella nostra parte del mondo, ma le dispense delle nonne sono sempre le meglio rifornite.
La restrizione di cibo e il nuovo modello economico hanno contribuito a favorire lo sviluppo dell’industria carnea e casearia. Questa crescita fu favorita anche dalla politica agricola dell’Unione Europea che, invece di finanziare il settore di ortofrutta, olio e vino più favorevole al clima mediterraneo, ha privilegiato la produzione di cereali, allevamento bovino da latte e da carne.
Un genitore che aveva trovato un miglioramento delle sue condizioni economiche si sentiva bravo e orgoglioso nel poter dare al proprio figlio ciò che lui non aveva potuto avere: la fettina di carne, anche tutti i giorni.
Il fatto di non potersi confrontare con dati scientifici indusse ad anticipare lo svezzamento anche a quattro mesi: si iniziò a produrre omogeneizzati di carne – arrivati negli anni Sessanta – consentendo alla donna di staccarsi dal proprio bambino più velocemente. I ritmi di una società dove il tempo manca sempre hanno imposto ai bambini di mangiare come gli adulti il prima possibile per rendere più pratica e veloce la preparazione dei pasti familiari.
Così si è pensato all’autosvezzamento, introducendo precocemente cibi che il bambino non è ancora adatto a ricevere e che possono provocare anche carenze alimentari (eccessivo consumo di carne, latte e di fibre nel primo periodo possono dare carenza di ferro e calcio).
Poiché si hanno ora a disposizione diversi anni di prove scientifiche e dati epidemiologici, abbiamo degli strumenti affidabili come i LARN, cioè i Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed Energia per la popolazione italiana. Si tratta di raccomandazioni elaborate da circa cento esperti italiani coordinati da una commissione composta da rappresentanti della SINU (Società Italiana di Nutrizione Umana) e dell’INRAN (Istituto di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione), utili a capire se una dieta sia adeguata o meno.
C’è ancora parecchia strada da fare in materia di applicazione nella ristorazione ospedaliera o negli asili, in quanto l’abitudine di introdurre carne e formaggio nei pasti è talmente radicata, la pubblicità è talmente martellante e la prassi di alcuni professionisti della salute talmente abituale che non ci si pone nemmeno il dubbio. Infatti vediamo come l’obesità infantile in Italia, ma non solo, sia in crescita stabile.
Bisogna quindi cercare una proposta che possa essere il più scientifica possibile, basata sulla conoscenza della fisiologia del bambino per rispettarne la crescita e mantenerne la salute il più possibile e che non sia viziata dalla moda, dalla cultura, dalla pubblicità, dalla politica e dall’economia.
Per curiosità ho poi cercato lo svezzamento fatto nel resto del mondo. Ogni Paese ha un proprio metodo. Per esempio, il Parmigiano che nei nostri schemi sembra il coronamento di un pasto perfetto, non lo usa nessun’altro, perché è fatto di proteine (non ne abbiamo bisogno in più) e sale (da evitare il primo anno).
Ogni mamma cerca di fare il meglio per il proprio bambino, come nel mio caso. Alcune considerazioni però dovrebbero essere universali e ognuno dovrebbe sforzarsi di declinarle nelle proprie realtà per poter essere in salute più a lungo.
[Continua]
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